Psichiatria e Psicoterapia

Può essere utile fare un po’ di chiarezza su cosa significa fare una visita psichiatrica e cosa significa, invece, un incontro con uno psicoterapeuta. Molto spesso, per chi non è del mestiere, non è facile capire effettivamente quali sono le differenze, cosa accade nel primo caso e cosa nel secondo.

La psichiatria è la branca specialistica della medicina che si occupa della cura e della riabilitazione dei disturbi mentali e dei comportamenti patologici. Lo psichiatra valuta la sintomatologia e il decorso clinico e propone una cura che può indirizzarsi verso un intervento farmacologico e/o psicoterapeutico.

Lo psicoterapeuta può essere un laureato in medicina o in psicologia con specializzazione in Psicoterapia. La psicoterapia è lo strumento clinico che consente di trattare i disagi psichici attraverso strumenti non farmacologici.

La distinzione tra un colloquio clinico psicologico e un colloquio psichiatrico classico risiede primariamente in una differenza ben precisa che riguarda la logica e l’approccio.

La visita psichiatrica risponde a un criterio medico-scientifico di obiettività. Si tratta innanzitutto di identificare i sintomi del paziente quali indici di una particolare malattia del soggetto. La raccolta delle informazioni riguardanti la storia del paziente, l’anamnesi, avviene in qualche modo a senso unico. Il paziente è guidato dallo psichiatra a riferire gli elementi della sua storia clinica e i vissuti relativi al malessere attuale al fine di elaborare una loro classificazione obiettiva. Per cui lo scopo del colloquio psichiatrico è arrivare ad una diagnosi della malattia che rientri in una certa classificazione. Questa esigenza di catalogazione dei sintomi per arrivare ad una designazione che fa diagnosi è un’operazione preliminare alla somministrazione di una terapia farmacologica.

Questa definizione della visita psichiatrica come indagine obiettivo-descrittiva della sofferenza psichica del soggetto giustifica le recenti modellizzazioni di strumenti diagnostici come, ad esempio, il DSM – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) – che si basano su una concezione medico-obiettiva della malattia mentale.

Il colloquio psichiatrico non può emanciparsi dal presupposto di fondo che riguarda la classificazione neutrale dei sintomi, la quale deve avvenire seguendo una logica puramente descrittiva che non può non obbedire a un concetto elementare di sintomo-segno come indice del disfunzionamento di qualcosa, ovvero della vita mentale di un soggetto.

Per questo motivo, la visione psichiatrica non può che arrivare ad un riduzionismo del significato dei disagi psichici. La soggettività del malato e come si colloca quel disagio all’interno della sua storia sono elementi aboliti; viene tutto ridotto a un elenco dei sintomi.

In quest’ottica, la malattia finisce per apparire come un’entità autonoma completamente desoggettivata, quasi come qualcosa che, in un certo senso, non appartiene al soggetto, come un evento che lo colpisce dall’esterno e che è costretto unicamente a subire.

Questa separazione della malattia dal soggetto implica una cura della malattia mentale che non coinvolge effettivamente il paziente e la sua parola nel processo di cura. Al centro c’è solo il soggetto del sapere medico-scientifico, ossia un soggetto ridotto a oggetto dell’osservazione. La particolarità del singolo è annullata dalla nosografia, dall’universalità delle procedure, ecc.

Questa logica medica dei disagi psichici non può che mettere al centro lo sguardo, non tanto l’ascolto. L’ascolto psichiatrico è in realtà una specie di radiografia, una scopia – con la quale si intende l’osservazione di un fenomeno fisico o un esame eseguito con mezzi ottici o controllato a vista - che porta ad evidenziare i sintomi-segni di una certa malattia.

Il soggetto, in questo tipo di clinica, vi entra, dunque, nella posizione di oggetto. La concezione medico-scientifica si fonda sull’idea di uno sguardo obiettivo, oggettivo, neutrale. Per questo si può definire una clinica dello sguardo – come direbbe il filosofo Michel Foucault. Una clinica dell’osservazione in cui il soggetto è ridotto a oggetto osservato, diagnosticato, classificato.

Il colloquio clinico psicologico, invece, - come sostiene lo psicoanalista Massimo Recalcati - si pone all’interno di una clinica dell’ascolto, al cui centro non può che esserci la parola del soggetto, il suo discorso, la sua storia con i suoi propri significanti e significati. In questo modo è possibile lavorare sul senso e sul non-senso di quello che sta accadendo nella vita di una persona per poter avvicinare qualcosa di una causa, di una verità che per il soggetto può essere difficile riconoscere da solo. Procedendo secondo i propri tempi, è possibile accedere ad una maggiore consapevolezza che può portare ad una rinnovata maniera di stare con sé stessi e con il mondo che non necessiti più della via sintomatica.

La cura farmacologica può essere valida in alcuni casi ma nella maggior parte di questi non è necessaria. Lo psicofarmaco è una soluzione che non risolve realmente il problema in quanto esso ha solo una funzione di contenimento dei sintomi. Gli psicofarmaci non rimuovono le cause che hanno portato a stare male, ma sono solo un rimedio che può tamponare, bloccare, arginare la sofferenza psichica. È per questo che possono essere molto utili in casi di sofferenza più acuta nell’accompagnare un percorso psicoterapeutico, per aiutarlo a procedere, altrimenti, presi senza affiancarli con una terapia della parola, in sostanza, si configurano come un metodo per aggirare, non per affrontare il disagio psichico.

Dunque, il farmaco risponde ad un’ottica medica, risponde anch’esso ad una logica di riduzione desoggettivante del disagio psichico, concezione che trova le sue maggiori critiche proprio all’interno della stessa psichiatria.

Due tra i più noti psichiatri del Novecento, Karl Jaspers e Ludwig Binswanger, sono stati tra i primi a costruire una critica radicale della psicopatologia classica basata proprio sull’esigenza di preservare il carattere irriducibile del soggetto. Infatti, secondo le tesi della psichiatria fenomenologico-esistenziale, la malattia mentale non è una malattia del cervello o dei nervi e non può essere concepita come una qualunque malattia del corpo, ma non può che essere letta come un modo particolare del soggetto di essere nel mondo. Un soggetto umano non si può spiegare come si spiega la pioggia o un qualunque fenomeno naturale, non si spiega secondo una causalità lineare (una determinata causa che produce un determinato effetto). La realtà umana, la realtà del soggetto si comprende. La comprensione, a differenza della spiegazione – che è la modalità tipica delle scienze della natura, del sapere medico -, non utilizza un criterio causale ma si basa su un’empatia, un’immedesimazione con il senso di quello che il soggetto è nel suo essere. La spiegazione mira alla causa, la comprensione al senso.

La comprensione coglie il senso che abita le formazioni culturali, sociali, storiche, dunque propriamente umane, della vita dello spirito.

Questo cambia l’intera concezione della malattia mentale: come definirla, dunque? Come un fatto di natura o come un’espressione della vita dello spirito? Potremmo dire che per la psichiatria tradizionale vale la prima risposta mentre per quella fenomenologica-esistenziale la nuova psicopatologia dovrà poter comprendere la malattia mentale come un progetto di mondo, come una declinazione della dimensione ontologico-esistenziale dell’essere-nel-mondo. Dunque, non è più centrale l’individuazione dei sintomi-segni ma la maniera in cui si è venuta a costituire un’esistenza, la particolarità di un’esistenza nel suo essere-nel-mondo.

Tale concezione della comprensione si delinea, nella pratica, come una modalità soggettiva di immedesimazione con il mondo interno del soggetto sofferente. Ma questo, in un certo senso, non va al di là di un generico umanesimo dell’ascolto sostenuto da un’ideologia dell’immedesimazione, di un reciproco sentire.

Questa concezione è sicuramente più vicina all’ottica psicoterapeutica ma centrare così fortemente la metodologia di lavoro sull’immedesimazione profonda con il vissuto emotivo del paziente e sull’empatia porta ad un altro tipo di rischio nel lavoro clinico, quello di una confusione immaginaria tra la parola e i vissuti del paziente e quelli dello psicoterapeuta. Il rischio è che la parola del paziente venga persa nel vortice di pensieri e di vissuti che appartengono ormai a un campo indifferenziato. Anche qui, dunque, abbiamo, in un certo senso, una desoggettivazione del discorso del paziente.

È per questi motivi che il colloquio analiticamente orientato dà così tanta importanza alla parola del soggetto e all’ascolto che valorizza tale parola. Non mira a promuovere un’attività interpretativa che riconduca forzatamente, a partire dal sapere del terapeuta o addirittura dal suo testo inconscio - come avviene nel colloquio empatico -, a significati che trascendono il testo cosiddetto cosciente del paziente.

La dimensione affettiva ed empatica è assolutamente presente all’interno della relazione psicoterapeutica ma non è certo lo strumento su cui si regge la cura, la cui valenza è tutt’altra cosa rispetto all’esercizio di una semplice empatia.

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